Uno sparo nella terra dell’oblio
Riccardo Tavani
La rimozione, l’oblio e la negazione sono situazioni interiori tanto vicine da conglomerarsi spesso in un unico blocco psicologico e mnemonico. Tale blocco può riguardare un singolo individuo come un’intera collettività. Da fatto privato si eleva a configurazione sociale, politica, a stratificazione storica. È il tema di questo film di Atom Egoyan, nel quale l’oblio assume le forme neurovegetative della semi demenza senile, assieme a quelle di un dovere interiorizzato nella sfera più magmatica del super-io.
Questa complessa forma psicologica e narrativa assume le sembianze di un personaggio: Zev Guttman. Ricoverato in una clinica per anziani negli Usa, una mattina si dilegua alla chetichella, per assolvere il compito assegnatogli da un altro vecchio paziente su sedia a rotelle: Max Zucker. Zev deve rintracciare e uccidere Rudy Kurlander, aguzzino nel campo di sterminio di Auschwitz, per vendicare le loro famiglie massacrate. Questo Kurlander vive da qualche parte in America, o forse in Canada.
In quella clinica di cura Zev ha visto da poco morire anche la moglie, cui era legatissimo. È rimasto solo. La sua semi demenza senile sembra più un vantaggio che un ostacolo per l’attuazione del piano che scrupolosamente ha predisposto l’amico, con il quale rimane sempre in contatto telefonico per ricevere nuove indicazioni o quieti ma indiscutibili ordini.
Scrupolosa è anche l’attenzione del regista anche ai minimi dettagli simbolici della storia, a cominciare dai nomi. Guttman, il cognome di Zev, significa in tedesco Buonuomo, ossia uno di noi, un tranquillo, anonimo uomo comune. Zucker, il cognome dell’amico in carrozzella, significa Zucchero. Max induce, ordina, ma senza violenza, in modo dolce, suadente, eppure irrefutabile. Alla base del cognome del vecchio nazista Kurlander, c’è la radice Kur, ossia cura, terapia, e Land o Länder, Terra, Terre. Come se la vera cura, guarigione per la demenza senile di Zev fosse il mettersi in viaggio per raggiungere la terra, il campo tanto simbolico quanto concreto ove ripristinare la giustizia per le atrocità commesse nei campi nazisti. L’affermare, il ripristinare la giustizia sulla Terra è d’altronde un archetipo che si esprime proprio come movimento del credo e del pensiero ebraici.
A proposito però di memoria: quale struttura narrativa fa riemergere questo film? Indubbiamente quella di This must be the place, di Paolo Sorrentino, con Sean Penn, del 2011. Anche lì abbiamo un protagonista particolare, una bizzarra maschera di rock star inglese che va in America: prima al funerale del padre, poi alla ricerca dell’aguzzino nazista che ha vessato e umiliato il padre in un campo di concentramento.
Nella storia del cinema non sono rari i richiami e rimandi tra diverse opere, perché i film non sono come isole galleggianti staccate l’una dall’altra. Possono apparire tali ma sono, in realtà, collegate a un medesimo fondo sottomarino. Così non è tanto importante la domanda se un film ci stia raccontando qualcosa di nuovo, quanto se lo sta raccontando in maniera nuova, nella sua forma cinematografica e narrativa. La risposta a questa domanda per Remember appare positiva: Egoyan sta riprendendo in maniera nuova uno schema narrativo già adottato per farne emergere una forma e una storia cinematograficamente diverse.
Così mentre l’incosciente ma non demente Cheyenne di Sorrentino viaggia per andare a mettersi a faccia a faccia con ciò che non conosce, lo Zev di Egoyan abbandona la casa, fugge, erra (nel senso dell’errore e dello spostarsi sulla terra) per tornare a ciò che ha voluto rimuovere, obliare, negare. Il peso nella coscienza di Cheyenne è rappresentato da un trolley da viaggio che il personaggio si trascina perennemente dietro; quello di Zev un semplice borsello a mano con dentro una pistola.
Una pistola che lui impugna con mano tremante ma il cui sparo denota improvviso e con eco sconvolgente, ben oltre la fine del viaggio e del film.