Hashtag: # quando il cinem@fumetto si fa serio
Riccardo Tavani
Favola più che fumetto metropolitano. Favola perché il suo mirabile personaggio centrale è Alessia, una fatina debole e malata psichicamente, ma vera super-eroina nel candore disarmante della sua bellezza e della sua follia. È una cosplay, ossia una di quelle ragazze fissate e vestite con gli abiti di eroi ed eroine da fumetto, che sono diventate un fenomeno sociale e di costume del nostro presente. Figura stupendamente interpretata da Ilenia Pastorelli alla sua prima e convincente prova di protagonista cinematografica. A questo luminoso personaggio femminile, dolcemente comico e straziante, fa da contrasto cromatico e psicologico quello di Enzo Ceccotti, interpretato – anche qui magistralmente – da Claudio Santamaria. Enzo è un ladruncolo di quella periferia romana che si chiama Tor Bella Monaca, dove il tram dei desideri passa sì, e anche spesso, ma non si ferma mai. Livido, abbrutito, imbolsito, spento in ogni pulsione vitale, ruba solo per pagare l’affitto nel bilocale desolato che abita, comprare i suoi vasetti gialli di yogurt di cui lecca il coperchietto e video porno, per avere l’illusione di slinguare almeno il coperchio di quei desideri cui ormai ha rinunciato.
Il terzo personaggio – antagonista di Enzo, di Alessia e di tutta la città – è il super desiderante, eccitato e spietato Zingaro, in una interpretazione di Luca Marinelli che richiama molto quella di Cesare in Non essere cattivo, il film postumo di Claudio Caligari prodotto da Valerio Mastandrea. Questo triangolo favolistico-fumettistico traccia una toponomastica antropologica urbana altrettanto maledettamente sacra e trina: il Tevere, Tor Bella Monaca, lo Stadio Olimpico. Tre luoghi in si è andata sedimentando la Historia Mitologico–Coatta della Città Eterna.
L’idea di base è che dalle piaghe più purulente della metropoli possa scaturire il bene. Il male odierno del Biondo Tevere, discarica liquida a cielo aperto di ogni rifiuto antropico tossico e virale, da cui può sorgere un dio-eroe bicefalo, oscillante tra l’istinto maligno come sfondo permanente e il richiamo elevato della salvezza, nelle parole squinternate di un ragazza completamente sola, disarmata, ormai orfana anche del padre, perso a fucilate ai piani alti di un cantiere edile abusivo in periferia.
Il carattere cui Santamaria – attraverso un lavoro di sottrazione interpretativa che spoglia quasi di ogni gesto e parola il personaggio – fornisce i tratti fisici e psichici è un tipo patologico sociale molto diffuso, già tra i giovani. Non diffuso, però, nelle sole periferie, ma nel cuore stesso della città intesa come civiltà. Il tipo depresso, che non crede più in niente, che si chiude dentro le pareti disadorne della propria rinuncia, che apre più lo sportello del proprio frigorifero mentale che la porta di casa del cuore. L’indifferenza urbana che si fa carne crocefissa nello squallore della propria edilizia-spazzatura interna, e nella discarica fluviale di yogurt magri alla banana e porno da discount.
A questo ideal-tipo auto inceppato si contrappone quello di chi – favorito dalla spirale strapiombante dell’indifferenza – muove all’assalto della ricchezza, dei beni, della cosa pubblica, ossia della res publica. Droga, bombe e denaro rimangono però confinate a Tor Bella. Serve il salto verso il centro. La politica è solo la continuazione della spoliazione con altri mezzi. Così più la folle fatina cosplay secerne bene, fiducia e fascino suadente dalla scorza dura e amara di Enzo-Jeeg Robot, più la città scuote dai suoi sotterranei oscuri, da quello stesso fiume avvelenato le sue forze maggiormente mefitiche, esplosive, distruttive. E la città non è solo Roma, ma quella diffusa in tutta la nostra contemporaneità.
Il trapianto, però, sulle sponde del Tevere dello scontro super eroico tra Bene e Male, passando per la micidiale zona grigia l’Indifferenza sociale, è realizzato in maniera originale, convincente, per quell’internità nell’inconscio collettivo planetario che i fumetti televisivi giapponesi hanno rappresentato per più di una generazione. D’altronde il regista Gabriele Mainetti e lo sceneggiatore Nicola Guaglianone avevano già giocato a cinema e fumetti con due cortometraggi Tiger Boy (ispirato all’Uomo Tigre) e Basette, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini e Luisa Ranieri. In Lo chiamavano Jeeg Robot il libero gioco d’inizio è arrivato a maturazione, mostrandosi felicemente serio. Hashtag: #quandoiragazzigiocanoseriamente.