LA VERITÀ NEGATA
Realtà e negazione in senso tecnico da Auschwitz alla sbarra di un tribunale

Riccardo Tavani

C’è una questione, davvero cruciale, che attiene al nocciolo non tanto storico, quanto filosofico del film La verità negata. Come si sa esso ricostruisce una vicenda processuale che ha segnato l’ordinamento giuridico inglese. Ordinamento fondato sulla common law, ossia più sulle concrete sentenze via via emesse che su atti, norme o leggi emanate dagli organi politici, come è nella civil law, scaturita dal diritto romano. Per queste e altre particolarità tecnico-giuridiche – che nel film sono ben spiegate – David Irving, pseudo storico, fervente esperto di Hitler e negazionista della Shoah, nel 1996 intenta, proprio davanti al Tribunale di Londra, una causa per diffamazione contro la professoressa ebrea americana Deborah Lipstadt e il suo editore inglese Penguin Books. La studiosa e la casa editrice ingaggiano uno dei più prestigiosi studi legali di tutta l’Inghilterra.

Abbiamo dunque qui rappresentata una doppia vicenda storica. Quella di un processo giudiziario e quella dei campi di stermino, che sono l’oggetto del giudizio. Il racconto quindi, fin dall’inizio, si trova sul terreno naturale del genere cinematografico detto legal drama. Quando la studiosa citata in giudizio giunge dall’America a Londra, i suoi avvocati la rendono edotta sulle singolarità tecniche dei procedimenti britannici e le illustrano la conseguente strategia processuale, supportata da una coerente tattica, che essi intendono seguire per riuscire ad afferrare, inchiodare alla verità storica e fattuale – da lui pervicacemente negata – l’abilissimo, imprendibile Irving. Quest’ultimo si sente così sicuro di sé da scegliere di rappresentarsi da solo, senza nessun avvocato.

Furono gli stessi nazisti a profetizzare che – anche fossero uscite vive dai campi – le vittime non sarebbero state credute da nessuno. Quello che avvenne all’interno di quel sistema industriale di annientamento umano, non solo fisico, non era possibile neanche immaginarlo. Molti sopravvissuti che dopo la sconfitta nazista andarono a vivere in Israele, neanche lì venivano creduti. Ci volle il processo Eichmann nel 1961 a Gerusalemme per squarciare il velo dell’inimmaginabile orrore consumato nel cuore della civiltà europea e delle atroci menzogne, rimozioni, negazioni che a esso seguirono.

La complessità sia della strategia e della tattica nelle udienze quotidiane, sia del contenuto in giudizio – l’Olocausto – pongono dunque il film su un piano tecnico ad alto impatto cinematografico. Le varie sedute e schermaglie appaiono come una vertiginosa partita a scacchi, giocata tra due abilissimi grandi campioni. Non c’è alcuno spazio per altri temi, protagonisti e neanche per sentimenti ed emozioni che non siano quelle delle tensioni, delle suspense, derivanti dai colpi, contraccolpi, successi e rovesci dello svolgimento processuale. È ridotta dentro il mero recinto del filo logico spinato, freddamente razionale la stessa enormità-abnormità esistenziale, morale, storica, politica e filosofica che fu Aushwitz, ossia lo sterminio di milioni di ebrei, zingari, dissidenti, omosessuali, handicappati fisici e mentali, seguaci di altre fedi. Esclusione che provoca le proteste sia della Lipstadt sia dei sopravvissuti presenti in aula.

La questione cruciale è dunque questa: ma la forma tecnica fu davvero secondaria rispetto al contenuto dello sterminio? Sia la dimensione di massa sia quella di qualità – ossia la sperimentazione della riduzione dell’umano al sub umano – furono in realtà possibili solo grazie a pianificazione tecno-scientifiche dalle dimensioni così ampie e meticolosamente dettagliate nello stesso tempo, che mai erano mai apparse prima nella storia umana.

La questione è stata posta in maniera abissale da Martin Heidegger, uno dei massimi filosofi europei che nel 1933 aderì al nazismo. Per lui lo stesso porsi di un apparato tecnico moderno non poteva che condurre all’organizzazione dei campi. Questi, in fondo, fanno parte della medesima vicenda di chimichizzazione dell’agricoltura. Dall’irrorazione dei campi agricoli alla gassificazione di quelli di concentramento il passo è conseguente, pressoché immediato. Il macabro Zyklon B usato nelle camere a gas è solo una concentrazione particolare di un insetticida prima fumigato nelle colture.

Nei suoi Quaderni Neri il filosofo sostiene addirittura che la tecnica moderna – a differenza della τέχνη (téchne) antica – rappresenta il massimo oblio dell’essere da parte dell’Occidente. Lo svelamento tecnico sarebbe così l’apice dello spirito del mondo contemporaneo, e come tale destinato a rovesciarsi, a riportare la civiltà sulla via della verità. Tale spirito moderno è insito nella stessa radice buia, originaria della cultura ebraica che lo ha diffuso e portato al suo più conseguente sviluppo. Ergo: gli ebrei si sono auto sterminati per mezzo dello strumento privilegiato da loro conseguito: la Tecnica. Lo sterminio totale che il nazismo intendeva portare a termine – ponendosi come agente lucido, efficiente di tale strumento – avrebbe ricondotto sul sentiero della luce il popolo tedesco e l’intera civiltà europea sotto la sua guida. L’intervento tecnico – nella sua specificità militare – degli alleati ha spezzato questo glorioso cammino del nazismo.

Heidegger – al contrario di Irving – non è affatto negazionista, anzi! Quello che preme però qui rilevare è il tema della tecnica come uno dei contenuti salienti della Shoah. Questo, soprattutto in relazione alla forma di questo film: un legal di altissima qualità (anche tecnica, appunto), pieno di tensione drammatica, che pone proprio la radicale, coerente tecnicalità giuridica al suo centro, al punto da estromettere preventivamente, programmaticamente e interamente a qualsiasi altro aspetto umano troppo umano, per dirla con Nietzsche.

È come se quell’intervento in senso tecnico-bellico degli alleati sugli insanguinati campi di battaglia del Vecchio Continente, proseguisse ora tra i nobili, austeri scranni di un tribunale britannico per mezzo del più elevato portato di tecnica, prassi e dottrina della civiltà giuridica occidentale. Quello che pone dunque il contenuto di questo film in termini di verità e menzogna in senso extra morale (citando ancora Nietzsche), è proprio la sua precipua forma di legal drama, in quanto quel processo in tribunale, quella messa alla sbarra di Irving, è il procedimento stesso di accertamento e affermazione del reale, che l’intera, attuale epoca umana ha ormai fatto proprio.