Julieta o la trinità della visione
Riccardo Tavani
Fin dalla prima scena d’incontro casuale tra Julieta e Beatriz, un’amica d’infanzia di sua figlia Antia, si capisce che Pedro Almodóvar vuole andare alla radice buia di un senso dell’esistenza. La colonna sonora del suo abituale compositore Alberto Iglesias s’intona perfettamente a questa intenzione e ne valorizza ogni singola inquadratura e sequenza.
Un incontro casuale tra le strade di Madrid, mentre Julieta è in procinto di trasferirsi, di lì a pochi giorni, in Portogallo con Lorenzo, il suo compagno. Beatriz le dice che per caso – a sua volta – ha incontrato Antia in Italia, vicino al Lago di Como, e che ha tre figli. La donna, non solo annulla la partenza, ma lascia subito anche la sua bella casa per trasferirsi nello stesso vecchio palazzo in cui viveva con sua figlia Antia. Il film è la lunga lettera per immagini che una madre scrive a una figlia che l’ha abbandonata, facendole perdere ogni traccia della sua esistenza.
Molte cose avvengono per caso in questo film, ma questa casualità ha poco di arbitrario, giacché è legata alla morte. La morte – per la nostra civiltà – non è un accadimento possibile ma necessario. Casuale è il momento in cui accade, non che avvenga. Ecco la radice dell’esistenza cui punta narrazione-visione di Almodóvar. Da questa radice scaturisce una pianta inquietante: il senso di colpa.
Il senso di colpa non riguarda solo la morte dei familiari o delle persone più vicine. No, esso riguarda la morte in sé. Lo dimostra la scena sul treno che Julieta ricostruisce nella lettera ad Antia. Un passeggero anziano prende posto nello scompartimento in cui lei – ancora ragazza – viaggia da sola. Quell’uomo vorrebbe parlare un po’, ma la giovane Julieta si alza e va con un libro nella carrozza bar. Qui conosce Xoan, il futuro padre di sua figlia. L’anziano nello scompartimento, però, approfittando della fermata in una stazioncina di campagna, si butta sotto il treno, appena questo riparte. Julieta vive il suicidio dello sconosciuto come una sua colpa. Si avvinghia in uno scompartimento vuoto a Xoan e così concepiscono Antia.
Il racconto prosegue con una successione concatenata di trance de vie e trance de mort, brani di vita e di morte nella storia di madre e figlia, fino quasi alla stessa morte di Julieta. Sembra che l’autore abbia bisogno di rinnovare l’evento della morte per svelare che il conseguente senso di colpa è il vero seme nero dal quale germogliano la vita e l’amore. L’amore, però, è sempre amore solo e soltanto per la vita, fino al punto di desiderare di riprodurla continuamente e di soffrire a non farlo. Così, dopo che l’anonimo passeggero si è buttato sotto il treno, Julieta – addossandosi la colpa di quel suicidio – si butta istintivamente tra le braccia di Xoan per rigenerare immediatamente un’altra vita, come a compensare quella appena perduta.
Almodóvar mostra una capacità di racconto asciutta, suadente, convincente che cerca di non mollare mai la presa dall’oggetto esistenziale messo a tema. Cerca ma non sempre vi riesce, perché non tutte le scene sono all’altezza della forma cinematografica più adeguata. Questo accade perché la reiterazione dell’evento morte – che si ripresenta casualmente quasi negli stessi modi o nelle stesse relazioni tra i pochi familiari protagonisti della vicenda – rischia il parossismo narrativo. Nel mostrare questa catena luttuosa nell’arco di tre generazioni – rappresentando Julieta quella di mezzo – all’autore, però, preme mostrare una sorta di chiusura, se non proprio pacificata, almeno attenuata del circolo di morte-colpa-vita. Se però il racconto andasse avanti, seguisse la vita della progenie di Antia, non potremmo che assistere ad altri tragici inanellamenti di quella successione una e trina.
Allora è la vicenda di un’intera civiltà – la nostra – a essere una storia del senso di colpa davanti alla morte. Pier Polo Pasolini scrive in Empirismo Critico che il cinema è la lingua della vita che ci restituisce i tratti salienti di una giornata, di una storia, tagliando nel montaggio tutti quelli ripetitivi, banali, superflui. Ossia il cinema è quella lingua della civiltà occidentale che parla in forma di immagini, di visione della storia. Visione – per tornare ad Almodóvar – della morte e della colpa. E visione legata – non è la prima volta nell’autore e non a caso – alla figura della madre.
La visione, però, potrebbe anche essere aberrata all’origine, quasi indossassimo occhiali con lenti deformate, velate, colorate, come quelle di un credo, di una fede ingiustificata.
Nel meccanismo da compensazione karmica del finale, l’autore sembra mostrare una piena accettazione, se non addirittura sottomissione alla tragica trinità o trimurti che vela e ri-vela il suo sguardo. Eppure compito di ogni arte, soprattutto quella delle immagini, è non limitarsi a riprodurre una visione ma a cercare quegli intrinseci elementi critici in grado di produrre dal suo interno un più alto contenuto di verità.