L’inquadratura stretta sullo sguardo sepolto di Saul

Riccardo Tavani

C’è stata sempre una questione cruciale nelle discussioni sulla Shoah. È la questione della rappresentazione dello sterminio e dei modi di sterminio attuato dai nazisti contro ebrei, zingari, omosessuali, dissidenti, credenti in altre religioni. Come è possibile trovare una forma di espressione in immagini, parole, musica o altro a un orrore tale da superare ogni umana possibilità di rappresentazione? Il filosofo tedesco di origine ebraica Theodor W. Adorno disse addirittura che scrivere una poesia dopo Auschwitz costituiva in sé un atto di barbarie.

Si può essere testimoni – si domanda Primo Levi –, ossia si può dare legittimamente la propria parola, logos, forma di ragionamento umana a chi era stato ridotto a una soglia di esistenza che sprofondava sotto quella dell’umano? Solo quel non-essere più umano potrebbe essere testimone diretto della propria condizione: ma come può farlo se non è più uomo, ossia non ha più parola? Se non ci si è trovati direttamente, come si può dire, testimoniare di chi si è invece trovato denudato dei propri abiti e della propria umanità corporea-spirituale e spinto, ammassato dentro le camere a gas, asfissiato dal micidiale Ziklon B?

Proprio su questo puntarono i nazisti: talmente mostruoso era quello che facevano che nessun eventuale sopravvissuto – affermavano spavaldamente – sarebbe stato creduto nel raccontarlo al mondo. E sono andati molto vicini a che ciò si avverasse.

Di tale questione ha eminentemente tenuto conto László Nemes, il regista esordiente di questo film. Chi denudava e spingeva la massa dei corpi dentro le camere a gas e poi li ritirava fuori per trascinarli nei forni crematori, dove erano bruciati? Chi portava fuori le montagne di cenere della combustione e la spargeva tra le acque di un lago o di un fiume? Erano uomini di un reparto speciale, chiamato Sonderkommando. Chi erano questi uomini? Erano altri ebrei, costretti dai nazisti a rendere efficiente e spedita la loro catena di montaggio industriale della morte. Dopo un mese o poco più anche questi ebrei erano eliminati e sostituiti da nuovi deportati, appena arrivati ed eletti a becchini.

Ecco il testimone del film. Un addetto al Sonderkommando del campo di Auschwitz-Birkenau: l’ungherese Saul Ausländer. Cerchiamo intanto di leggere nei nomi. Saul è nome ebraico che deriva dall’aramaico Shaul, e significa domandato, desiderato, implorato. Domandato, desiderato come un figlio. Implorato da chi? Da Dio. Il figlio di Saul è dunque il figlio del figlio.

Il cognome Ausländer, contiene in sé la provenienza dalla terra, l’essere della terra, delle terre (Land, Länder). Il figlio del figlio della terra. La terra dell’uomo e di Dio. Saul, infatti, desidera, implora Dio e gli uomini di seppellire nella terra un ragazzo uscito ancora con un alito di respiro dalla camera a gas. Visitato e subito eliminato dal servizio medico del campo, il sopravvissuto è destinato a essere aperto, sezionato, studiato come un oggetto.

I corpi dei detenuti gasati sono chiamati pezzi dalle guardie naziste: “Portate via i pezzi, bruciate i pezzi!”, urlano ai Sonderkommando. Neanche la morte – scrive Primo Levi – si può chiamare più morte nei campi. Anche la morte è stata tecnicamente ridotta al sub umano. Questo l’esperimento che va oltre ogni orrore attuato dai nazisti. Misurare la soglia sotto cui si può schiacciare l’umano anche nella morte.

Per questo la terra di Dio implora suo figlio Saul di restituirle quel figlio sopravvissuto al letale gas Zyklon B. Perché è l’unico gesto che può ancora testimoniare l’umano nella totalità sub umana del lager.

Il tentativo di Saul di assolvere tale imperativo si fa nel film fenomenale espediente narrativo per farci percepire tutto lo spietato meccanismo, assemblaggio tecnico della produzione e combustione di pezzi cadaverici, pupazzi di mera, consunta stoffa epidermica e ossea. Pure lo stile della ripresa e della resa cinematografica è continuamente ricondotto all’inquadratura stretta sul volto di Saul. Sul volto, cioè, del testimone, come una soggettiva del suo sguardo e della sua coscienza. Ossia: non testimone impossibile dell’orrore esperito da un ragazzo asfissiato, tornato a respirare e subito di nuovo soffocato, ma testimone del proprio tentativo di figlio di Dio di opporre all’apparato di espropriazione umana (anche nella morte), l’unico gesto implorato da Dio come l’avvento di suo figlio.

L’inquadratura stretta, inoltre, non testimonia, non mostra, non rappresenta l’irrappresentabile – non potrebbe farlo – ma lo fa intravedere, udire, percepire acutamente più alla sensibilità sepolta nel nostro sottosuolo, allo sguardo interiore che alla vista esteriore.

La X a vernice rossa dietro la giacca di Saul, più che un segno di infamia impresso dalle guardie naziste a un pezzo, a un pupazzo del Sonderkommando, si fa segno del sacro, del divino che è già nella terra infinita da cui veniamo e che abitiamo.