Dalla giungla alle banlieu parigine il dentro è fuori

Il film ha vinto la Palma d’Oro al festival di Cannes 2015 e questo – sorprendentemente – assume un suo significato particolare, proprio alla luce del recente attacco jihadista a Parigi. Dheepan è un guerrigliero tamil che mette in scena la sua fintamorte per fuggire dallo Sri Lanka. Per ottenere lo stato di rifugiato politico mette in scena anche una sua finta famiglia, quella formata da una donna sconosciuta, Yailini, che non è sua moglie e una bambina, Illayaal, che a sua volta non è neanche figlia della donna. Tre persone tra esse sconosciute, senza patria e famiglia, che per comune convenienza e sopravvivenza si associano per rifarsi una nuova vita in Europa. Ottenuto lo status di rifugiato, Dheepan ottiene anche un alloggio e un lavoro in una banlieue al limite estremo di Parigi con la campagna. Diventa guardiano dello stabile, popolato da immigrati, nel quale abita con Yailini e Illayaal. Deve, però, fare anche le pulizie in un alloggio a pianterreno dello stabile antistante, che è controllato dalla mala franco-algerina. Yailini – che vorrebbe invece andare via da Parigi e raggiungere subito sua sorella a Londra – è costretta ad accettare di fare la badante a un vecchio algerino dello stabile antistante, padre di un giovane boss locale – agli arresti domiciliari – che le bande rivali vogliono uccidere. La nuova vita di Dheepan si dimostra presto una mera illusione. La violenza, il conflitto armato, la logica della guerra civile e della sopraffazione dalla quale aveva voluto fuggire, la ritrova pari pari nella sua nuova condizione esistenziale in Francia. Deve difendere quella finta moglie, quella finta figlia dall’esposizione alle pistole e ai mitra che vomitano fuoco delle bande rivali tra i viali e le finestre di quella giungla di cemento. È costretto a rindossare i panni del combattente armato e a tracciare una linea bianca di frontiera tra il suo caseggiato e quello della mala locale. Il conflitto, però, è anche dentro la sua attuale patria, la sua finta famiglia. La donna vuole andarsene a tutti i costi da quell’inferno, abbandonando il finto marito e la finta figlia, verso cui – d’altronde – non sente alcun affetto materno o di altro tipo. L’uniformità egemone imposta dall’Occidente a ogni zona del mondo su produzione, merci, consumi, abitudini sociali, si estende anche alle forme del conflitto armato. L’ultima spettacolare e feroce aggressione al cuore urbano di Parigi lo dimostra: il fuori è dentro. Ma c’è una via di fuga e d’amore da tale autentica eppure finta prigione d’odio? Autentica, perché tale sensibilmente la percepiamo sulla pelle viva del nostro presente. Finta, perché essa c’è imposta dall’attuale civiltà omologata, fin dentro la nostra coscienza più intima o autocoscienza di ciò che percepiamo. Il regista del film, Jacques Audiard, sembra volerci dire che dentro di noi passa questa ambivalente linea bianca di confine e che in nessun’altra parte del mondo – che non sia tale interiore intimità – si trova una possibilità d’uscita. Ciò è vero, purché non resti un discorso di riscatto meramente soggettivo, individuale, ma sia di civiltà. Così l’inquadratura finale – con la mano di Yailini che carezza con impercettibile ma toccante afflato i capelli di Dheepan, seduto ai suoi piedi – sembra volere estendere universalmente non un discorso ma far epidermicamente sentire a tutti tale abissale soglia di autenticità e finzione, di perdizione e salvezza.